Con una legge del 20 luglio 2000, la Repubblica italiana ha istituito il Giorno della Memoria e nel primo articolo riconosce il 27 gennaio come data simbolica per "ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte e quelli che si sono opposti al progetto di sterminio, e che a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati". Lo scopo indicato dalla legge è proprio quello di "conservare nel futuro dell’Italia la memoria di un tragico ed oscuro periodo della storia nel nostro Paese e in Europa, e affinché simili eventi non possano mai più accadere".
Proprio per non dimenticare, vogliamo
parlare di un luogo della nostra città, simbolo di quei tragici eventi, il
Carcere di Via Tasso, ora Museo Storico della Liberazione.
Quando
i Romani che hanno vissuto i giorni dell’occupazione nazista sentono nominare “Via
Tasso” non possono non ricordare la tragedia che portò morte, paura e timore
tra partigiani, ebrei e oppositori politici.
Era il luogo dove si veniva portati, anche senza motivo, interrogati,
detenuti e torturati e da cui si poteva uscire destinati al carcere di Regina
Coeli, al Tribunale di guerra (condanne al carcere in Germania o alla
fucilazione a Forte Bravetta), alla deportazione, oppure, come accadde per
molti, alle Fosse Ardeatine
E’ un grosso fabbricato che si trova
vicino la basilica di San Giovanni in Laterano, che durante la seconda guerra
mondiale venne adibito in parte a caserma della Gestapo e in parte a luogo di
detenzione. Le stanze, piccolissime, ospitavano dai 12 ai 14 prigionieri, vi
era una cucina e uno sgabuzzino cieco che fungeva da cella di isolamento.
L’unico arredamento delle celle era un tavolaccio alto circa 5 centimetri,
largo 1 metro e lungo 2 ma nei momenti di affollamento maggiore, molti detenuti
dovevano passare le loro giornate e le loro notti rannicchiati a terra, dato
che non tutti avevano la possibilità di distendersi. I gabinetti erano privi di
porta e chiunque ne usufruisse era sempre sotto lo sguardo duro e sprezzante
della guardia, quella situazione quotidiana era motivo di profonda umiliazione.
Le finestre erano murate per evitare
ogni contatto con l’esterno e non far sentire le urla; non poteva penetrare
neanche un filo di luce. Ma nei mesi della detenzione molti prigionieri
lasciarono sulle pareti delle celle i 'segni' della loro resistenza: firme, messaggi
di incoraggiamento per i compagni, notizie ai familiari o avvertimenti. Questo museo è uno di quei luoghi che
provocano emozioni forti che ci spingono a riflettere sulla nostra storia
passata; è una delle tante fonti storiche che ci permette di ricordare cosa è
successo nel nostro paese prima di noi e ci fa capire che alcune persone per
difendere il diritto alla libertà e all’uguaglianza hanno sofferto e sono
morte. Dobbiamo fare tesoro di questa storia perché conoscere, comprendere e
ricordare il nostro passato significa costruire e diffondere la pace.
Daniel Cozma, Francesco Palombi,
Valeria Mancini,
Valentina Meuti, Benedetta Viola
Classe I D